Si conclude nell’ Arcidiocesi Metropolitana di Taranto l’Anno Giubilare dedicato al Santo Vescovo Cataldo, in occasione del 950° Anniversario dell’ invenzione del suo corpo.
L’esistenza di un culto universale medievale per un vescovo “tarantino”, chiamato Cataldus, è confermata da un numero veramente impressionante di chiese del XII secolo a lui dedicate: i luoghi di culto sono documentati sia sul piano archeologico che archivistico, in quasi tutta la penisola italiana, entro la linea di demarcazione Genova-Cremona-Mantova-Venezia, e nella totalità della Sicilia con propaggini culturali a Malta (Mdina) ed in terra santa (Betlemme) e, agli inizi del XIII secolo, anche nella chiesa di santa Sofia a Costantinopoli e nella cattedrale francese di Notre-Dame a Clermont. Il riverbero liturgico di queste antiche chiese cataldiane, è dato dai calendari liturgici medievali di quelle zone. Sotto la suggestione delle più antiche testimonianze iconografiche di questo santo latino conservate in Sicilia a partire dal XII secolo (Cappella Palatina di Palermo, Duomo di Monreale) ed in terra santa (Basilica della Natività a Betlemme), non pochi studiosi hanno assegnato ai Normanni il merito della diffusione capillare del culto per san Cataldo. Più di recente, però, chi scrive ha ipotizzato per il santo vescovo Cataldus due stratificazioni culturali, entrambe ufficiali ed irradiatesi da Taranto: la prima altomedievale, universale, legata alla cultura rurale longobarda, la seconda, a cavallo del secolo XI, di semplice recupero da parte degli arcivescovi tarantini, i quali hanno rinverdito l’antico culto puntando essenzialmente sul ritrovamento delle ossa cataldiane (donde le locali traslazioni, la costruzione dell’attuale cattedrale tarantina e l’invio delle reliquie in luoghi molto lontani da Taranto). (La Leggenda Agiografica di San Cataldo, di Alberto Carducci tratto da: “La Cattedrale di San Cataldo” di Patrizia De Luca, Scorpione Editrice, 1997).
Nel testo del francescano tarantino d’adozione, Padre Adiuto Putignani, si trova che la figura di San Cataldo, per un complesso di ragioni ed in modo particolare per la mancanza di senso critico in non pochi scrittori della nostra regione, che, direttamente o indirettamente, se ne sono occupati, è restata avvolta nella vaporosa nebulosità della leggenda, che, in qualche caso, ha rasentato la favola. Ed è stato proprio l’interpretazione leggendaria della vita del santo che ha adito a tutti gli scrittori di collocarlo, a loro piacimento, in un secolo o in un altro, alle origini del cristianesimo e, conseguentemente, della Chiesa tarantina, come al secolo XI, tra gli arcivescovi. E’ noto, infatti, che la Chiesa di Taranto fu retta da Vescovi sino al 978, e che solo con Giovanni II si ebbe il titolo di Arcivescovo. Come in tutte le cose umane, la verità, a nostro avviso, sta nel mezzo. Verità, diciamo, non intuitiva, ma deduttiva, fattasi largo in questi ultimi tempi, e che si appalesa con lo studio comparato delle tradizioni irlandesi e tarantine. Man mano che ci si addentri nella intricatissima questione storica e si vagliano i giudizi e le affermazioni dei vari scrittori, e si raffrontano tra loro, inquadrandoli nel periodo storico più probabile, la nebulosa vaporosità scompare e i lineamenti storici di San Cataldo si stagliano e si precisano. Il merito principale della chiarificazione storica va a due ottimi scrittori, a Mons. Giuseppe Blandamura, già Arcidiacono della Cattedrale tarantina e all’Ingegnere Fra Anselmo M. Tommasini, dei Frati Minori. Il primo, attraverso lo studio della crocetta aurea opistografica rinvenuta nel sarcofago del santo all’epoca del rinvenimento del sacro Corpo dall’Arcivescovo Dragone nel 1071 e la interpretazione paleografica delle lettere incise su di essa, è riuscito a collocare il santo nel suo giusto periodo storico; il secondo, avvalendosi dello studio del Blandamura e di varie fonti letterarie irlandesi a lui famigliari, ha contribuito a rischiarare sempre più e meglio l’orizzonte storico. Il pellegrinaggio del santo in Palestina non è messo in forse da nessuno dei vari scrittori e biografi, ed una testimonianza iconografica la si può tutt’ora ammirare nella Basilica della Natività di Betlemme; ma nel contempo nessuno ci dice quanto tempo si sia ivi fermato. Con un salto, senza tempo, nello spazio, lo ritroviamo sui mari, sulle spiagge del Salento. Ma in quale punto della costa salentina toccò egli terra? L’ipotesi attendibile e rispondente alle tradizioni tarentine ed irlandesi, è quella del naufragio sulle coste ioniche, la quale, come vedremo, è basata sugli effetti delle correnti marine e dei venti dominanti e ricorrenti del golfo. Dal tempo della colonizzazione greca fino a tutto il medioevo, i viaggi da e per l’Oriente si effettuavano in due soli tempi dell’anno, cioè nei mesi marzo-aprile e settembre-ottobre. Fuori di quei periodi era rischioso affrontare il mare aperto. A questa condotta generale dovette certamente attenersi San Cataldo nel suo ritorno in Europa. Ma se in linea di massima il Mediterraneo era navigabilissimo in tali periodi dell’anno, non lo era, come non lo è oggi per le piccole imbarcazioni, il nostro Jonio a causa del predominio di alcuni venti e di alcune correnti marine.(Padre Adiuto Putignani o.f.m. San Cataldo Vescovo e Protettore di Taranto. Studi Francescani Salentini, Sezione Storica, nr. 6 Libreria Editrice, Taranto, 1970)