Se n’è andato in silenzio, dopo una vita di lavoro, tra reti, “nasse” e spago il novantatreenne Giuseppe Gargiulo, conosciuto da tutti come “Carcapall”: uno degli ultimi pescatori Crapolla. La lugubre ma emozionante musica del complesso bandistico “Città di Massa Lubrense” ha accompagnato l’ultimo esponente di quella cerchia di torchesi che animavano quotidianamente la “marina di San Pietro”, tra file e file di barche “tirate” sulla battigia, in un’epoca dove le spiagge erano un luogo di lavoro per i pescatori e non un passatempo per i bagnanti. Pochi sapevano l’origine del suo soprannome: derivava da un antico e pericoloso modo di pescare, quello con le bombe (la cosiddetta “pesca di frodo”), che nel passato si adoperava non meno di reti e “nasse”. Aveva passato un’intera vita sul mare, alla ricerca di ricciole, dentici, gamberetti, per poi trasmettere al figlio Donato l’arte e l’esperienza: i tempi erano mutati, “Carcapall” era anziano, ma lo si poteva ancora vedere, sino ad alcuni anni fa, seduto fuori alla sua casa con le dita delle mani e dei piedi occupate dal famigerato “spago”, per rammendare le reti, quasi un sarto. Ma non solo: anche le nasse di giunco, vere e proprie trappole con cui catturare i famosi gamberetti di Crapolla sul fondo del mare, nascevano dalla sua proverbiale pazienza. Dalle cosiddette “lepantine” essiccate, si costruivano gli oggetti più impensabili (oggi diremmo oggetti bio-sostenibili e a km 0): cestelli per formaggio, legacci per l’agricoltura e poi le famose “nasse”. Quelle che “Carcapall” intesseva pazientemente nelle giornate di pioggia, in attesa che “o’ mare se facesse ‘bbuono” e si potesse scendere giù a Crapolla per pescare, insieme al compagno “o’ Brasileo”, un torchese dalla carnagione olivastra. Ma a Torca, borgo agricolo a 300 metri sul mare, la pesca si univa quasi indissolubilmente anche all’agricoltura: quasi tutti i pescatori del passato alternavano le mattinate passate nei campi alle nottate trascorse a mare, per sopravvivere alla fame e alle difficoltà di una Massa Lubrense povera, terra d’emigrazione e di sofferente arretratezza. I volti rugosi dei pescatori di Crapolla, le loro mani “callose” e l’aria di salsedine che si portavano addosso: tutte caratteristiche che si ritrovavano anche in “Carcapall”, ultimo epigono di un mestiere che i giovani non vogliono più intraprendere. Eppure Massa Lubrense, sin dall’antichità, è stata patria di pescatori: ce lo rivela il gesuita Pietro Anello Persico, che nel ’600 scriveva che “la pescagione non è meno dilettevole e utile della caccia, poiché li pescatori ogni mese sogliono pigliare qualche specie diversa di pesci”. Gli strumenti seicenteschi per pescare non erano poi tanto diversi da quelli che approntava “Carcapall”, o prima di lui “Garibaldi”: “sciabiche, reti di fondo, chiusa rana e nasse” (P.A. Persico, “Descrittione della Città di Massa Lubrense” 1644). Riccardo Filangieri, a proposito della pesca scrisse: “lungo le coste frastagliate di Massa il mare s’insinua in numerose insenature e antri, delle più bizzarre forme, ove, tra giuochi bellissimi di luce e di tinte, vive tutta una natura rigogliosa di morbidissimi vegetali marini, tra cui si aggirano miriadi di pesci, di molluschi, di crostacei e di zoofiti”. Come dare torto allo storico e archivista napoletano: il paesaggio marino massese, tanto ricco e rigoglioso, è così unico al mondo da essere tutelato dall’Area Marina Protetta Punta della Campanella, ma, nel passato, pescatori come “Carcapall” riuscivano a difenderlo con la loro pesca sostenibile e naturale.
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