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LE DOLCI PRUGNE DEL VESCOVO DI MASSA LUBRENSE - WEB GIORNALE INDIPENDENTE

LE DOLCI PRUGNE DEL VESCOVO DI MASSA LUBRENSE

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LE DOLCI PRUGNE DEL VESCOVO DI MASSA LUBRENSE

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Faceva caldo quel  27 luglio 1587 a Massa Lubrense: un’afa, non dissimile quella che ci sta attanagliando in queste settimane, ammantava l’aria e rendeva difficile finanche dormire. Nelle celle vescovili massesi (le celle sorgevano tra il palazzo vescovile e la Chiesa di Santa Maria delle Grazie), dove erano richiusi alcuni sacerdoti per addebiti di vario genere,  l’afa si univa alla noia: don Ascanio Maldacea, giovane chierico rampollo di una delle più importanti famiglie di Massa, condivideva la cella con don Pietro Fontana e don Tommaso Festinese. Un po’ il caldo, un po’ la noia non riusciva a prender sonno e decise di recarsi nel giardino del vescovi per assaporare delle gustose prugne e bere della fresca acqua: era un carcere “allegro” quello del vescovo di Massa Lubrense, dove le porte invece di essere sbarrate erano addirittura spalancate. Nonostante l’invito a non uscire, rivoltogli dal compagno di cella don Tommaso, don Ascanio non volle sentir ragioni, aveva bisogno di quella “evasione”: raggiunto il giardino però senti delle voci che provenivano senza ombra di dubbio dalla torre che custodiva (anch’essa senza troppo successo) un altro sacerdote, don Domenico de Marino. All’improvviso don Domenico apparve dall’oscurità: brandiva un archibugio e desiderava ardentemente regolare alcuni vecchi conti con don Ascanio. Gli sparò con precisione, colpendolo al braccio e al petto, ma non lo uccise: si scoprì che si odiavano per via di una donna, con cui entrambi dovevano intrattenere rapporti poco convenienti per lo stato ecclesiastico che rivestivano. Una storia di corna tra preti in una calda estate di fine’500, finita a “schioppettate”: questa fu la notizia che corse di bocca in bocca nel paesino all’alba. Don Domenico d’altronde non era uno stinco si santo, anzi al contrario era una “diavolaccio”: era stato arrestato l’anno prima perché preferiva andare a caccia di ricercati piuttosto che attendere agli uffici di sacerdote e guadagnata la libertà aveva immediatamente aggredito il notaio del vescovo, per evitare il processo. Tornato in carcere, continuò a fare il bello e il cattivo tempo con l’appoggio della sua potente e ricca famiglia: grazie ad una chiave false entrava ed usciva a piacimento di prigione continuando a condurre la sua peccaminosa vita. Don Ascanio ebbe salva la vita, miracolosamente: ma la vicenda si complicò dallo scontro tra il potere regio, rappresentato dal capitano Cesare Rocco e il vescovo di Massa Lubrense, mons. Giambattista Palma, incidentalmente cugino del violento don Domenico. Una vicenda di criminalità ecclesiastica di provincia si trasformò in un affare di stato, dai complicati risvolti diplomatici. Il capitano Rocco aveva sottratto don Domenico dalle carceri vescovili (dove non era sicuramente ben sorvegliato), ma il vescovo, in tutta risposta, l’aveva scomunicato, richiamandosi al principio del privilegio del foro: un ecclesiastico poteva essere processato solo da altri ecclesiastici. Intervennero il viceré, il papa, il nunzio di Napoli, ma la bomba giurisdizionale era solo deflagrata: restituito al vescovo, don Domenico non finiva di stupire. Affiorava dal passato una storia losca, dove perversione e violenza si univano in maniera inestricabile: giovane notaio, Domenico aveva insidiato un coetaneo di nome Cesare Catuogno. Voleva violentarlo, ma di fronte allo scontro fisico con il povero Cesare, lo bastonò e lo strangolò. Inoltre, poco tempo dopo, non solo bastonò un agostiniano di Santa Maria della Misericordia, ma appese vicino alla porta del convento un cartello offensivo e imbrattò la porta con della cacca. Crimini che potevano costare il remo eterno (il servire come rematore sulla flotta regia) o la morte con il supplizio della ruota: ma Domenico non era solo violento, era anche ricco e potente. La sua famiglia, tra le più in vista di Massa Lubrense, convinse il vescovo, Giambattista Palma, tra l’altro legato ad essa da vincolo di parentela, a  concedergli un’ordinazione presbiterale di facciata, per sottrarlo ai “birri” che gli davano la caccia. Con la sicurezza della bolla di ordinazione, don Domenico tornò da Roma, dove era scappato:  a Massa poté riprendere a vivere disordinatamente, con il vantaggio della protezione ecclesiastica. La storia che via abbiamo raccontato fu descritta con ricchezza di particolari dalla felice penna di Franz Sepe nel 2002, nel pregevole volumetto “Le Prugne del Vescovo”, edito dalla  sede Archeoclub, sotto gli auspici e con la collaborazione di Stefano Ruocco. Un’opera che alla fine ci restituisce solo indizi su come finì il processo vescovile a don Domenico de Marino: fu condannato con una pena ridicola. Come ha sottolineato più volte nei suoi studi Giovanni Romeo, forse il più importante studioso della giustizia ecclesiastica dell’Età Moderna, lo spirito corporativo e la spinta verso l’immunità garantiva ai preti criminali ampie vie d’uscita dai processi imbastiti, spesso controvoglia, dalle autorità diocesane. Si preferiva condannare e colpire i laici, meglio se poveri, piuttosto che stroncare il malcostume criminale dei religiosi, che inoltre rischiava di fare una cattiva pubblicità all’intera Chiesa di Roma. Don Domenico, così come buona parte dei preti criminali del’500 e del’600, non scontò quasi nulla per le sue malefatte: una gran fortuna avere un cugino vescovo per ricevere velocemente una talare, alla luce del fatto che per le medesime malefatte un semplice laico rischiava una morte violenta e dolorosa.

Gennaro Galano

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