E’ morto nel reparto detenuti dell’ ospedale di Parma dopo una lunga malattia, all’età di 87 a nni Totò Riina, ritenuto dagli inquirenti ancora il capo di Cosa Nostra
– Viene incarcerato, la prima volta, quando ha da poco compiuto 18 anni.
per l’omicidio di un coetaneo, durante una rissa, per cui viene condannato a 12 anni. Nato a Corleone il 16 novembre del 1930 da un famiglia di contadini – perderà
presto il padre e il fratello, morti mentre cercavano di
estrarre della polvere da sparo da una bomba inesplosa -, Totò
Riina, fino ad allora ha alle spalle solo qualche furto.
Poca roba, fino all’incontro con Luciano Leggio, all’epoca
mafioso rampante che sta tentando di farsi strada. E’ lui, suo
compaesano che per un errore di trascrizione di un brigadiere
passerà alla storia come Luciano Liggio, a farlo entrare in Cosa
nostra. Un metro e 58, che gli vale il soprannome di Totò U
Curtu, esce dall’Ucciardone nel 1956, a pena scontata solo in
parte, e viene arruolato nel gruppo di fuoco di Leggio che
dietro di sé lascia una lunga scia di sangue.
La lotta per il potere di “Lucianeddu” e dei suoi comincia
nel 1958 con l’eliminazione di Michele Navarra, medico e boss di
Corleone. Leggio ne azzera il clan e ne prende il posto. Totò
diventa il suo vice. Nella banda c’è anche un altro compaesano,
Bernardo Provenzano. Nel dicembre del 1963 Riina viene fermato
da una pattuglia di carabinieri in provincia di Agrigento: ha
una carta di identità rubata e una pistola. Torna all’Ucciardone
per uscirne, dopo un’assoluzione per insufficienza di prove nel
1969. Mandato fuori dalla Sicilia al soggiorno obbligato, non
lascerà mai l’Isola scegliendo una latitanza durata oltre 20
anni. Da ricercato inizia la sistematica eliminazione dei
nemici: nel 1969, con Provenzano e altri uomini d’onore, uccide a colpi di mitra il boss Michele Cavataio e altri quattro picciotti in quella che per le cronache sarà la strage di viale Lazio. Due anni dopo è lui a sparare contro il procuratore di
Palermo Pietro Scaglione. L’ascesa in Cosa nostra, ottenuta col
sangue e la violenza – sarebbero oltre 100 gli omicidi in cui è
coinvolto e 26 gli ergastoli a cui è stato condannato – è
inarrestabile. E va di pari passo con i primi delitti politici:
l’ex segretario provinciale della dc Michele Reina e il
presidente della Regione Piersanti Mattarella. Dopo la cattura
di Leggio, Riina prende il suo posto nel triumvirato mafioso
assieme a Stefano Bontate e Tano Badalamenti. Farà poi
allontanare quest’ultimo, accusandolo falsamente dell’omicidio
di un capomafia nisseno.
Ma è negli anni 80 che il ruolo suo e dei suoi, i viddani, i
villani di Corleone che hanno sfidato la mafia della città,
diventa indiscusso. Soldi a fiumi con la droga, gli appalti e la
speculazione edilizia. E una conquista del potere a colpi di
omicidi eclatanti e lupare bianche. E’ la seconda guerra di
mafia. Il 23 aprile 1981 cade Stefano Bontande, “il principe di
Villagrazia”, il boss che vestiva in doppiopetto, frequentava i
salotti buoni della città e controllava i traffici della Cosa
nostra palermitana. Massacrato nel suo regno e nel giorno del
suo compleanno. Diciotto giorni dopo, tocca al suo alleato,
Totuccio Inzerillo, poi al figlio e al fratello: i parenti
superstiti fuggono negli Stati Uniti e hanno salva la vita a
patto di non tornare più in Sicilia. In poche settimane restano
a terra decine di cadaveri. Riina la belva , come lo chiama il
suo referente politico Vito Ciancimino, ex sindaco mafioso di
Palermo del sacco edilizio, è feroce e spietato. Condannato in
contumacia all’ergastolo durante il “maxiprocesso”, viene
inchiodato dalle rivelazioni dei primo pentito di rango, Tommaso
Buscetta. Totò “u curto” si vendica facendogli uccidere undici
parenti. Quando il maxi diventa definitivo e cominciano a
fioccare gli ergastoli per gli uomini d’onore, il padrino
dichiara guerra allo Stato. Una sorta di redde rationem con la
condanna dei nemici storici come i giudici Falcone e Borsellino,
a cui si doveva il maxiprocesso, e di chi aveva tradito. La
lista di chi andava eliminato era lunga e contava anche i
politici che, secondo il boss, non avevano rispettato i patti.
E’ la stagione delle stragi che il capo dei capi vuole
nonostante non tutti in Cosa nostra siano d’accordo. Il 12 marzo
muore Salvo Lima, proconsole andreottiano in Sicilia. Il 23
maggio e il 19 luglio del 1992 i giudici Giovanni Falcone e
Paolo Borsellino. Al boss restano però pochi mesi di libertà: il
15 gennaio del 1993 i carabinieri del Ros lo arrestano dopo 24
anni di latitanza. La moglie, Ninetta Bagarella che ha trascorso
con lui tutta la vita, torna a Corleone con i quattro figli,Lucia, Concetta, Giovanni e Giuseppe Salvatore, tutti nati in
una delle migliori cliniche private di Palermo.
Gli ultimi periodi della latitanza la famiglia li trascorre
in una villa degli imprenditori mafiosi Sansone, a due passi
dalla circonvallazione. I carabinieri lo ammanettano poco
lontano da casa: un arresto il suo su cui restano molti punti
oscuri. La versione ufficiale lo vuole “consegnato” da un suo ex
fedelissimo, Baldassare Di Maggio, il pentito che poi avrebbe
raccontato del bacio tra Riina e Andreotti. Ma sulla cattura del
capo dei capi gravano ombre pesanti: a tratteggiarle sono gli
stessi magistrati che dal 2012 lo processano per la cosiddetta
trattativa Stato-mafia in cui il boss avrebbe avuto, almeno
inizialmente un ruolo. Sarebbe stato il compaesano, l’amico di
una vita, Bernardo Provenzano, più cauto e, dicono i pentiti,contrario frontale all’attacco allo Stato, a venderlo ai
carabinieri barattando in cambio l’impunità.
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